Lun
14
Mar
2011
L'Uomo Senza Nome
L’Uomo Senza Nome sedeva, solo, al bancone del Titti Twister.
Nessuno si sognava di disturbarlo. Era un duro, Lui.
Una Leggenda.
La Leggenda.
O questo, almeno, era ciò che si raccontava.
Lo raccontava Lui stesso, invero, quando era abbastanza sbronzo da lasciarsi andare a polverosi amarcord della sua straordinaria esistenza.
A vederlo, aveva tutta l’aria di uno che ha passato la vita a fare a cazzotti con il mondo.
“Le poche volte che ci siamo incontrati, io ed il mondo, è finita male per entrambi”.
Non c’erano riferimenti temporali o spaziali, nelle sue storie. Tutto ciò che era accaduto stava accadendo ora per allora, qui per chissà dove.
Mai un nome, una descrizione. “Lui”, “Lei”, “Quella cosa che ha incrociato la mia lama”: questo era il massimo che concedeva alla sua occasionale platea di beoni. Sembrava quasi che i protagonisti delle sue epiche battaglie non fossero altro che ombre; ombre di una vita vissuta ad andamento lento, talvolta in retromarcia, nonostante una dichiarata e perenne lotta contro il tempo.
Ombre che il suo ego aveva bisogno di alimentare, ingigantire, trasfigurare in orribili démoni degni di essere da Lui affrontati e sconfitti. Infondo, ogni cavaliere ha il suo drago da sconfiggere.
Ma Lui non lo faceva per gli altri. Non andava in cerca di applausi, non gli interessava l’ammirazione di nessuno. Lo faceva per se stesso. Aveva bisogno di sentirsi il numero uno, per poter provare ad esserlo davvero. Come lo era stato un giorno (o per un giorno?) di tanto tempo fa.
Talvolta, quando ci dava dentro con il rum (“lascia quella bottiglia sul bancone se non vuoi che ti recida la carotide”), tra un borbottio razzista e l’altro (“Negri! Una volta per 40 cents potevi anche usarli come legna da ardere, adesso ti tocca pure mangiarci assieme” “Gialli! Un’epidemia. Per anni se la sono presa con i negri, i porci. Che diavolo avranno mai fatto i negri, dico io! Ed intanto i gialli si moltiplicavano come cavallette” ), si poteva udire un insolito lamento nel suo biascicare stentato; e le ombre d’un tratto si facevano reali, ed i draghi ed i démoni parevano assumere le sinuose curve di un amore perduto, o forse mai conquistato.
Quindi si alzava, si sistemava il nero cappotto di pelle, tirava fuori dalla tasca interna della giacca il più pregiato tra i sigari che poteva permettersi ed imboccava l’uscita sul retro; un uomo solo, che in quei momenti desiderava essere ancora più solo.
Nessuno hai mai saputo dove andasse. C’è chi giurava di averlo visto scuoiare coyote giù a sud, cinquanta-sessanta miglia lontano dal Twister. Altri se lo figuravano compiere empi rituali di sangue in nome di chissà quale divinità pagana; altri ancora asserivano rincorresse la notte, emissario di e della Morte.
Ovunque andasse, non ci restava per molto: due ore dopo, puntuale come un orologio, lo si vedeva tornare.
Entrava con passo pesante, testa bassa, mano destra sull’elsa della sua inseparabile katana. Senza degnare di uno sguardo nessuno dei presenti, andava a sedersi in un lercio tavolino monoposto che faceva angolo infondo a sinistra.
“Rum”, ordinava stancamente.
La scena era sempre la stessa: l’oste gli portava la bottiglia (pampero e solo pampero) al tavolo, lui faceva un cenno con la mano sinistra, questo si chinava e l’uomo senza nome bisbigliava qualcosa. L’oste annuiva, tornava dietro al bancone, ed attaccava uno di quei lenti da checche che in casi normali avrebbe scatenato l’inferno giù al Titti Twister. Ma era il “suo” lento, e nessuno aveva niente da ridire. Ho cercato a lungo quella melodia, senza successo.
Un malinconico brano senza nome, proprio come lui.
1 commento
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Un commento mi sembrava d'obbligo
Me gusta, anche se è uno strano mix di wild west, fantasy e oriente (katana <3)...